SANT’ANNA DI STAZZEMA (Lu) – Sant’Anna è già montagna con i suoi oltre seicento metri, anche se si percepisce il profumo del mare – si vede anche il mare, fino alla Corsica e l’Argentario, pure stamani che c’era qualche ciuffo di nebbia e foschia – e dalle spiagge di tutta la Versilia si scorge il monumento alle 560 vittime, ombelico del Parco nazionale della pace voluto nel 2000. E’ una montagna che culmina con una via crucis e una grande lapide ricostruita dopo che venti ad oltre duecento chilometri all’ora la mandarono in frantumi nel 2015, quella lapide che mette in fila i nomi degli innocenti uccisi settantatré anni fa dai tedeschi con l’aiuto dei fascisti.
Oggi a Sant’Anna abitano una trentina di residenti: un borgo fatto di casolari sparsi sulle pareti di una valle che è un anfiteatro naturale, con i marmi delle Apuane a far capolino e i monti Leto, Gabberi e Orniato di guardia. Allora gli abitanti erano molti di più (c’erano anche centinaia e centinaia di sfollati arrivati dalla costa, perché il paese tra le montagne era considerato più sicuro) e i tedeschi praticamente li uccisero quasi tutti: 560 vittime, poi date alle fiamme assieme alle case quasi per provare a cancellarne ogni traccia.
C’erano i tedeschi quella mattina del 12 agosto 1944, ma non solo loro.  “Con la bocca e metà volto coperti da una benda c’erano anche uomini e donne che parlavano italiano” raccontano ancora oggi in paese. Collaborazionisti. Insieme ai tedeschi calarono dal crinale che guarda Stazzema, da tre sentieri diversi, e chiusero Sant’Anna ad imbuto. Un’azione premeditata e studiata. Rastrellarono chi poterono e uccisero chiunque trovarono: 560 donne, uomini e bambini.
Il ricordo di Enrico Pieri, che aveva dieci anni
Il paese era diviso in borghetti. Iniziarono dalla Valcareccia: con i primi settanta morti. Poi fu la volta dei Franchi. “Io mi infilai in un sacco di fagioli e così riuscii a salvarmi” raccontava due anni fa Enrico Pieri, con la voce ancora spezzata dalla commozione al ricordo del babbo, la mamma e le due sorelle trucidate. Aveva dieci anni, oggi è il presidente dell’Associazione Martiri e uno dei pochissimi superstiti dopo che l’anno scorso se n’è andata Bianca Pieri e pochi mesi prima anche Nella Pieri, madre di Roberto Bertelli, una delle donne, allora ragazze, eroiche di Sant’Anna. Prestò infatti i primi soccorsi ai bambini sfuggiti al fuoco e alle armi, soli e impauriti in mezzo al buio della notte: prestò aiuto anche a Enrico, che abitava ai Franchi in un casolare in pietra semplice, placidamente abbarbicato sulle piane. E con lui viveva la famiglia Pierotti, sfollata da Pietrasanta per scappare dai bombardamenti.
Dieci anni dopo la strage Enrico decise di emigrare in Svizzera, perché quei luoghi gli ricordavano troppo dolore e quando nacque suo figlio Massimo dovette decidere se mandarlo ad una scuola francese o ad una tedesca. “Lo iscrissi ad una scuola tedesca” ha raccontato in passato. “Mi resi conto che la Germania era troppo importante per l’Europa, che non si doveva e non si poteva più odiare e che eravamo tutti europei. L’Europa nasce a Sant’Anna di Stazzema, a Marzabotto, nei campi di concentramento ed in ogni luogo dove si è consumata una tragedia”. Una vera e propria lezione di vita. Anche per questo, oltre al suo impegno per divulgare la memoria di Sant’Anna, ad Enrico Pieri è stato conferito nel 2011 dal Parlamento Europeo il Premio Cittadino Europeo.
Poi, trentadue anni dopo essere emigrato, Enrico è tornato e lentamente ha recuperato un rapporto stretto con quel luogo che fu dolore, “dove anche le pietre mi parlano” dice ogni volta e dove quasi ogni mattina viene a prendersi cura dei sentieri, delle piante o a raccontare la storia di Sant’Anna ai tanti giovani, trentamila, che ogni anno arrivano in paese da tante scuole. Un lavoro intenso e continuo per diffondere la memoria della strage ed evidenziare la drammatica attualità di una vicenda accaduta 73 anni fa. “Mai più santanne”, è il grido, il monito e l’auspicio che Enrico lancia agli studenti ogni volta che li incontra.
Il museo
La storia di Sant’Anna del resto è in fondo la storia di una memoria ritrovata e da conservare, con un messaggio che travalica i confini e i popoli. Una memoria che ha trovato casa nel museo attrezzato in quella che era la scuola del paese, che con un linguaggio moderno e multimediale prova a parlare ai giovani
All’alba la furia omicida
Tutto si consumò in poche ore quella mattina del 12 agosto. I tedeschi uccisero nonni, padri e madri, figli e nipoti. Uccisero i paesani ma anche gi sfollati appunto, saliti in montagna in cerca di un rifugio dalla guerra. Uccisero Anna Pardini, l’ultima nata del paese che aveva appena venti giorni, lei che non aveva una foto per ricordarla e fu fotografata da morta, come appare nella lapide posta su un muro del monumento ossario accanto alla mamma e la sorella di sedici anni. Uccisero Evelina, che quella mattina aveva le doglie del parto. Uccisero Genny, la madre che prima di morire, per difendere il suo piccolo Mario (Marsili), scagliò lo zoccolo in faccia al nazista che stava per spararle; e lo salvò, anche se il piccolo rimase offeso dal fuoco in gran parte del suo corpicino. Uccisero il prete Innocenzo, che implorava i soldati di risparmiare la sua gente. Uccisero più di un prete. Uccisero gli otto fratellini Tucci con la loro mamma. Uccisero tanti ragazzi e bambini che non avevano ancora sedici anni e che riempiono, con i loro volti, un pannello intero del museo.
Tante storie che trovano posto su quella vela in pietra in cima al monte, con 560 nomi e l’età  in cui la loro vita improvvisamente è stata soffocata. Giorni a mesi spesso, neppure anni.
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Fonte: Regione Toscana