MONTECARLO. Quel capannone preso in affitto era diventato ben presto un dormitorio dove lavoravano 24 ore su 24, in condizioni igienico sanitarie e senza misure di sicurezza, quattordici persone. Una sorta di lager gestito da una cinquantenne cinese – Juan Wcong – che senza alcun tipo di autorizzazione aveva cambiato la destinazione d’uso di parte del fabbricato di 180 metri quadrati. In pratica da artigianale-industriale era diventato ad uso abitativo con la realizzazione di dieci stanzeni-celle realizzate in modo del tutto simile a quelle di un alveare. Una situazione scoperta nel maggio del 2014 dai carabinieri del nucleo ispettorato del lavoro coadiuvati dai militari della stazione di Altopascio. A quasi quattro anni di distanza il giudice Gerardo Boragine ha condannato Juan Wcong per gli abusi edilizi realizzati in totale assenza di permessi e autorizzazioni a 4 mesi di reclusione e a una multa di 25mila euro. Assolta invece per non aver commesso il fatto la proprietaria dell’immobile Gabriella Di Marco risultata del tutto estranea a quanto avveniva all’interno del capannone e soprattutto ignara del fatto che la titolare cinese dell’attività commerciale avesse realizzato quelle camerette in totale assenza di rilascio di nullaosta da parte dell’amministrazione di Montecarlo.
Adesso chi paga? Intendiamoci, condanna e sanzione pecuniaria sono soltanto sulla carta. Perché della donna-imprenditrice cinese nessuna traccia (sempre assente al processo) e quella ditta «Confezioni Giovanna» in via della Pace in località Turchetto a Montecarlo rappresentata proprio dalla Wcong oggi non esiste più. Quindi quelle 25mila euro di ammenda non le pagherà nessuno. O meglio saranno in carico alla comunità . Sono sempre di più gli imprenditori cinesi che aprono un’attività e portano gli introiti nel loro Paese senza pagare un euro di tasse.
La storia. In quella ditta di confezioni lavoravano giorno e notte 14 cinesi, uomini e donne di età compresa tra i 25 e i 32 anni. Per la stragrande maggioranza non contrattualizzati e quindi al nero. I capi di abbigliamento realizzati nel capannone-lager erano in tessuto sintetico e venivano lavorati per conto di fornitori residenti a Prato. All’epoca, dopo il blitz dei militari, la titolare annunciò (senza farlo) che avrebbe regolarizzato 8 dei 14 dipendenti
che vivevano in spazi ridottissimi, dormivano in pagliericci, dotati di una cucina da campo con una bombola di gas, estintori scaduti e macchine da cucire senza protezione. Oltre a cavi sistemati sul pavimento privi di salvavita con materiale sintetico ammassato a terra.
Fonte: Il Tirreno